Le tendenze demografiche, i grandi cambiamenti nella scala dei bisogni e nella struttura delle risposte, la globalizzazione sregolata e una crescita dell’economia che rimane al di sotto del potenziale stanno progressivamente sgretolando la rete delle vecchie sicurezze. Si assiste ad un radicale cambiamento dell’economia e della società che si riflette, in negativo, sulla vita delle persone, sui loro bisogni, sulle loro paure e sui loro comportamenti soprattutto creando nuove povertà. E’ lungo l’elenco delle nuove povertà. Si va dalla precarietà del lavoro (co.co.co.) alle difficoltà d’inserimento nel mondo del lavoro, alle minori coperture sociali e previdenziali, agli anziani soprattutto quando soli, all’esclusione dai mezzi di comunicazione o analfabetismo digitale, alla divaricazione della scala sociale per la ricchezza acquisita da alcuni e frutto di evasione o elusione fiscale. C’è l’auspicio di una nuova organizzazione delle funzioni di indirizzo politico in materia di lavoro e salute in un unico Ministero dedicato allo sviluppo sociale che può e deve costituire l’occasione per una visione integrata dei vari profili che concorrono al benessere dei cittadini. Lo stretto legame tra salute e prosperità economica sottolineando, altresì, la centralità del benessere dei cittadini nelle politiche contemplate dalla Strategia di Lisbona per la crescita e l’occupazione. Promuovere la salute consente di ridurre la povertà, l’emarginazione e il disagio sociale, incrementando la produttività del lavoro, i tassi di occupazione, la crescita complessiva della economia. Allo stesso modo un aumento della qualità della occupazione e delle occasioni di lavoro per un arco di vita più lungo si traduce in maggiore salute, prosperità e benessere per tutti. Una riforma del nostro modello sociale sarà più agevole e potrà consentire al tempo stesso soluzioni più avanzate e durature offrendo risposte unitarie e non settoriali o, peggio, segmentate in corrispondenza dei diversi bisogni nel momento in cui si manifestano. La sfida non è solamente economica ma, prima di tutto, progettuale e culturale. Bisogna riproporre la centralità della persona, in sé e nelle sue proiezioni relazionali a partire dalla famiglia. Bisogna pensare a un Welfare delle opportunità che si rivolge alla persona nella sua integralità, capace di rafforzarne la continua autosufficienza perché interviene in anticipo con una offerta personalizzata e differenziata, stimolando comportamenti e stili di vita responsabili, condotte utili a sé e agli altri. Un Welfare così definito potrà offrire prospettive soprattutto a giovani e donne, oggi penalizzati da una società bloccata e incapace di valorizzare tutto il proprio capitale umano. Invece di ritardare all’infinito l’esperienza del lavoro, esso va considerato parte integrante dei processi formativi attraverso adeguati strumenti normativi che consentano di integrare positivamente esperienze di studio e di lavoro. L’obiettivo è di scoprire un modello di governance che garantisca la sostenibilità finanziaria e obbiettivi strategici dei prossimi anni per giungere, attraverso un costante esercizio di benchmarking con le migliori esperienze internazionali e in coerenza con le linee guida comunitarie, a un sistema di protezione sociale universale. Le disfunzioni, gli sprechi e i costi dell’attuale modello, così come il quadro difficile delle compatibilità macro-economiche attuali e soprattutto in prospettiva, sono noti e ampiamente documentati è sufficiente ricordare che la nostra spesa sociale si colloca leggermente al di sopra della media dei Paesi OCSE e che la sua composizione è manifestamente squilibrata in favore della spesa pensionistica, che costituisce oltre il 60% della spesa sociale al netto della istruzione. Poi c’è la sanità che rappresenta circa il 24%, seguita dall’assistenza (8,1%). La spesa per la salute è dunque oggettivamente penalizzata dal peso eccessivo della spesa pensionistica. In termini di incidenza sul PIL la spesa pubblica sanitaria in Italia assorbe il 6,8% (1,5% PIL quella privata): un dato inferiore alla Germania (8,6%), alla Francia (7,4%), alla Svezia (7,9%) e alla media europea (7 %). La spesa sanitaria desta preoccupazione non solo per il presente, ma soprattutto per le tendenze che sono state variamente analizzate e considerate. Ciò che allarma è la sua dinamica, spinta da una crescente domanda qualitativa e quantitativa. Nel periodo 1996-2005 la spesa in euro correnti è cresciuta del 6,9% annuo, a fronte di un incremento tasso di crescita del PIL inferiore della metà. L’invecchiamento e la bassa natalità determinano un cambiamento nelle priorità del sistema sanitario e ben tredici Regioni segnalano un disavanzo. L’85% del disavanzo complessivo si concentra in Lazio, Campania e Sicilia. I costi operativi sono così profondamente diversificati nelle Regioni e il criterio della spesa storica, posto alla base del riparto del Fondo Sanitario Nazionale, risulta sempre più insopportabile per gli equilibri complessivi della finanza pubblica e per i cittadini che vivono nelle aree caratterizzate da maggiore efficienza. Essi accettano la doverosa solidarietà verso i territori dotati di minore capienza fiscale affinché vi sia parità di opportunità per la erogazione dei servizi essenziali, ma non sono più disponibili a finanziare a piè di lista l’inefficienza. Ne va della stessa coesione nazionale. La spesa socio-assistenziale è per lo più amministrata dagli enti locali. Secondo l’ISTAT è segnata da un grande divario territoriale: si va dai 146 euro per abitante del Nord-Est ai 40 euro del Sud. Nell’ambito di uno stesso territorio le politiche variano da comune a comune. Raramente esse sono integrate con le politiche sanitarie e socio-sanitarie nel concetto di «sistema». È giunto il momento di gettare le fondamenta per un nuovo Welfare, che garantisca pari opportunità e diritti sostenibili lungo l’intero ciclo di vita a tutti. E’ finito il tempo della contrapposizione, tutta ideologica, tra Stato e mercato ovvero tra pubblico e privato. Un Welfare nuovo deve scommettere su una virtuosa alleanza tra mercato e solidarietà attraverso una ampia rete di servizi e di operatori, indifferentemente pubblici o privati, che offrono, in ragione di precisi standard di qualità ed efficienza, non solo semplici servizi sociali e prestazioni assistenziali, ma anche la promessa di una vita migliore, incidendo su comportamenti e abitudini negativi e in grado di proporre nuovi stili di vita. Mentre il vecchio Welfare si è concentrato con maggiore o minore successo, e con una certa dose di paternalismo, su singoli bisogni e su specifiche situazioni di disagio o debolezza, un moderno Welfare deve essere capace di fornire una risposta globale ai diversi bisogni della persona. Con queste premesse il tema della sostenibilità del modello sociale diventa ancor più rilevante nel contesto di straordinaria instabilità della economia globale che vede particolarmente esposto un Paese come è l’Italia fortemente indebitato e viziato da alcune dinamiche di spesa difficilmente comprimibili, come nel caso della previdenza. Bisogna, a questo punto, valutare bene la forza delle attività finanziarie delle famiglie che sono pari a quasi quattro volte il reddito disponibile. La ricchezza complessiva netta delle famiglie, tenendo conto degli immobili, è pari a oltre sette volte il reddito. La spesa privata rimane una componente essenziale delle spese socio-sanitarie delle famiglie italiane. In questo quadro, le diverse forme di mutualità fra privati, realizzate attraverso la bilateralità, le assicurazioni private o le forme miste, sia quelle di natura previdenziale sia quelle di natura socio-sanitaria, possono concorrere in maniera efficiente ed equa a migliorare la gestione dei rischi. Per questo motivo, queste realtà devono essere collocate all’interno di una visione organica del sistema di Welfare del Paese. Occorre dare, dunque, maggiore impulso allo sviluppo della previdenza complementare nonché ai fondi sanitari integrativi del servizio pubblico al fine di orientare e convogliare la spesa privata verso una modalità di raccolta dei finanziamenti che, nel rispetto del principio di solidarietà generazionale, sia in grado di porsi accanto al finanziamento pubblico di derivazione fiscale ed integrarlo. Si potrebbe favorire così la “socializzazione dei rischi” e la conseguente riduzione dei problemi di selezione degli iscritti. Lo Stato può disegnare un quadro normativo adeguato, offrire benefici fiscali, aiutare le parti e soprattutto le persone a prendere atto dei limiti, ormai ineludibili, dell’intervento pubblico. E’ positivo che l’attuale legislatura possa introdurre il federalismo fiscale e riformare, in termini quanto più condivisi tra gli schieramenti, la seconda parte della Carta costituzionale con particolare riguardo al suo Titolo V. Avere a disposizione un benchmark di riferimento e due strumenti che tra di loro devono essere letti, ovviamente, in modo integrato (da un lato, il controllo finanziario, di gestione contabile; dall’altro, la possibilità di verificare continuamente lo scostamento rispetto agli obiettivi di qualità) potrebbe consentire un pilotaggio molto più stretto e condiviso, tale da non viziare il nostro assetto istituzionale, se si vuole allo stesso tempo predisporre una capacità delle Regioni rispetto all’appuntamento del federalismo fiscale che, come è noto, interessa largamente la spesa sociale. Quest'ultima e le relative politiche non potranno non diventare anzi il metro su cui costruire il federalismo fiscale. Un passaggio urgente sarà il superamento della spesa storica, non solo essenziale per la coesione nazionale ma anche utile alle popolazioni delle aree con servizi più deboli e frammentati per innescare meccanismi virtuosi di responsabilità. Diversamente, si manterrà un circolo vizioso di cui conosciamo bene i risultati. Ragionevolmente il federalismo fiscale si sosterrà attraverso alcune deterrenze. La prima di esse è il rischio dell’innalzamento della pressione fiscale nei territori in cui la gestione è più inefficiente. In questi giorni sui giornali di tutto il mondo si parla, tra i paesi del PIGS, (Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna) di un possibile default della Grecia, che deve pagare sui propri bond interessi del 7% annuo per renderli appetibili dal mercato. E’ il risultato di politiche economiche che negli anni, non hanno tenuto conto della ricchezza reale del paese, che non hanno introdotto le riforme che avrebbero potuto contrastare la mancanza di competività del sistema Grecia, rinviando a un domani, non meglio precisato la correzione di un debito pubblico ormai fuori controllo. Fra questi paesi anche al Portogallo, la settimana scorsa, le agenzie di rating hanno abbassato il livello di fiducia. Per capacità di gestione finanziaria l’Italia sta meglio e non fa parte di quella lista. Ma il tempo che passa invano non è infinito.
venerdì 9 aprile 2010
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